Trump torna ai dazi. Ma questa volta è diverso
(Post #148) Non è il ritorno dei dazi la vera notizia, ma il loro nuovo uso: da strumento negoziale a leva punitiva con effetti sistemici globali.
Il nuovo annuncio di Trump di pochi giorni fa che annuncia una serie di tasse doganali a partire dal primo agosto rilancia i dazi come strumento cardine non solo della politica commerciale, ma dell’intera proiezione internazionale della Casa Bianca1. Dopo la momentanea sospensione delle misure annunciate al Liberation Day, molti avevano intravisto una correzione di rotta. Ma il ritorno all’aggressività suggerisce che – in assenza di cambi nei suoi consiglieri chiave – i dazi resteranno il perno dell’agenda estera trumpiana.
Questo articolo non si limita a registrare il ritorno dei dazi – un fatto ormai metabolizzato dal dibattito pubblico – ma intende mettere a fuoco la vera novità: un cambio di paradigma nel loro utilizzo. Durante la prima presidenza, i dazi erano uno strumento negoziale, inserito in una strategia industriale coerente volta a riequilibrare le catene del valore globali e contenere l’ascesa cinese. Oggi, al contrario, emergono come un dispositivo prevalentemente identitario e punitivo, orientato a logiche di consenso interno più che a una visione sistemica di politica economica estera.
E’ questa forse è la vera essenza del rischio verso cui ci stiamo indirizzando.
Prima stagione tariffaria: i dazi come strumento di contenimento strategico della Cina
C’è una differenza sostanziale tra la politica dei dazi di Trump perseguita nella prima amministrazione (2017–2021) e l’attuale rilancio delle misure protezionistiche. Anche se lo strumento è lo stesso - i dazi - gli obiettivi e per certi versi gli stessi mezzi sono completamente differenti.
Durante il primo mandato di Trump aveva individuato come target principale della sua azione la Cina. L’obiettivo strategico era ben individuato e riguardava un confronto per la leadership mondiale nei futuri decenni. Le motivazioni ufficiali di questa politica ritorsi a erano coerenti con l’indirizzo strategico della politica: la denuncia della sovraccapacità produttiva in alcuni settore di base (es. acciaio, alluminio), il sistematico furto di proprietà intellettuali, i sussidi industriali statali e pratiche non di mercato di Pechino a sostegno di imprese nazionali. Infine si cercava di limitare la dipendenza USA in settori critici (es. principi attivi farmaceutici, tecnologia, terre rare). Da qui derivava una strategia industriale altrettanto chiara: l’uso dei dazi per favorire il reshoring (rilocalizzazione produttiva negli USA) e promozione dell’accordo USMCA per rafforzare la produzione in Nord America (es. automotive) al fine di favorire un “blocco produttivo Nordamericano” rispetto alla Cina.
Il che non ha aveva evitato tensioni con altri paesi e in particolare l’Unione Europea. L’imposizione dei dazi su acciaio e alluminio nel 2018, colpì direttamente diversi paesi europei e innescò misure di ritorsione da Bruxelles (ad esempio contro prodotti simbolo come il bourbon, le moto Harley-Davidson e i jeans Levi’s). A differenza della Cina, tuttavia, l’UE veniva percepita più come un sistema da “indirizzare” piuttosto che da combattere frontalmente: l’obiettivo era ridurre il surplus commerciale e modificare le politiche industriali tedesche, non rovesciare il sistema di alleanze. Potremmo sintetizzare con la seguente espressione: si creò una grande tensione ma lo scontro si mantenne a bassa intensità.
Anche il passaggio dal NAFTA (North American Free Trade Agreement) al USMCA (United States-Mexico-Canada Agreement) fu complicato. Il NAFTA, in vigore dal 1994, era fortemente criticato da Trump già in campagna elettorale, descritto come un accordo “catastrofico” per l’industria e i lavoratori americani e quindi la critica era coerente con la politica di sostegno alla classe media americana che era stata una delle pietre miliari del successo elettorale sulla Clinton. L’USMCA si caratterizzava quindi per contenuti “pro-worker” prevededendo nuove regole sul lavoro, incluso l’obbligo per il Messico di alzare i salari nel settore automobilistico e rafforzare i diritti sindacali. Il risultato è stato la creazione di un blocco commerciale contro la Cina, in particolare nel settore manifatturiero e high-tech.
Robert Lighthizer: l’architetto del protezionismo strategico
Se vogliamo semplificare questa politica aveva un nome che era quello di Robert Lighthizer avvocato commercialista, ex vice US Trade Representative durante l’amministrazione Reagan. Durante la prima amministrazione Trump Robert Lighthizer ha ricoperto il ruolo ufficiale di United States Trade Representative (USTR).
Robert Lighthizer ha svolto il suo mandato dal 3 maggio 2017 al 20 gennaio 2021. Il Rappresentante per il Commercio degli Stati Uniti ha un ruolo a livello di ministro ed è il consigliere del presidente in materia di commercio estero. Esso inoltre è responsabile della negoziazione e della gestione dei trattati commerciali internazionali, oltre che della supervisione dell’attuazione delle leggi sul commercio compreso l’applicazione di sanzioni, dazi, ecc.
La minaccia cinese, come focus di quella politica è ben tracciata dallo stesso Lighthizer in una intervista di quasi due ore rilasciata a Tucker Carlson nel marzo di quest’anno.
“Primo: la Cina ha l’esercito più grande del mondo, e lo sta ampliando. Ha la marina più grande del mondo. Sta militarizzando il Mar Cinese Meridionale in un modo che non si vedeva dalla Seconda guerra mondiale. […]
Stanno conducendo attività di spionaggio su una scala mai vista prima. L’FBI dice di aprire un nuovo caso di spionaggio cinese ogni poche ore, e ce ne sono a migliaia. […] I loro “diplomatic wolf warriors” vanno in giro per il mondo a fare qualunque cosa possa destabilizzare gli Stati Uniti. Stanno costruendo basi militari in tutto il mondo. […]
Quindi stanno raccogliendo dati. Stanno conducendo una guerra economica contro gli Stati Uniti rubando tecnologia, imponendo trasferimenti forzati di tecnologia, e tutte quelle pratiche che ormai conosciamo bene.
Quindi, se metti insieme tutti questi aspetti – diplomatico, militare, economico – uno dopo l’altro, e guardi anche alle loro stesse parole, dove parlano di “cambiamento mai visto in cent’anni” e di “prepararsi alla guerra”… diventa chiaro che il loro obiettivo è essere i numeri uno al mondo.
Pensano che il mondo stia meglio con il totalitarismo politico, con il marxismo e con il comunismo economico. Questo è il loro disegno, e noi siamo d’intralcio. Questo è il loro obiettivo.
L’idea della “centralità della Cina” attraversa la loro storia da 2.000 anni. E noi siamo il problema. Per tutte queste ragioni, dobbiamo riconoscere che siamo davanti a una minaccia esistenziale reale e dobbiamo reagire. […] Se metti tutto insieme, devi fermarlo. La prima cosa da fare quando sei in una buca è smettere di scavare”.
Per Lighthizer i dazi erano, quindi, uno strumento tattico di forzatura negoziale per ottenere accordi bilaterali, come è avvenuto nel percorso per arrivare alla firma dell’USMCA con Canada e Messico. Lighthizer svolgeva anche un importante ruolo di mediazione con le imprese assicurando dopo una prima fase turbolenta un consenso attorno alla strategia del presidente2.
Lighthizer non ha ricevuto nessun incarico in questa legislatura ed è assente dal team economico di Trump 2025
Dazi 2.0: perché l’America First di oggi non è più quella del 2017
Nessuno di questi elementi si ritrova nella attuale politica dei dazi americana, dove gli stessi assumono un ruolo di mero strumento politico-elettorale.
I dazi oggi non hanno alcuna caratterizzazione selettiva o discriminante con l’applicazione di una flat tariff del 10% su tutte le importazioni. Inoltre le misure protezionistiche sono meno focalizzate nel governare le catene di valore e più orientate a riequilibrare il deficit commerciale globale. Né sono prova i dazi contro il Messico ispirati soprattutto da ragioni migratorie e di sicurezza, non economico-strategiche.
In generale vi è meno attenzione strategica al dominio cinese: anche se la Cina resta un bersaglio retorico, le nuove proposte appaiono più generiche e meno legate a politiche industriali di riequilibrio nei settori critici (es. semiconduttori, fermaceutico, batterie). Pur non volendo banalizzare potrei affermare che a differenza della fase precedente, l’attuale impostazione manca di una cornice coerente per la competitività tecnologica americana o per la sicurezza delle catene del valore.
Oggi il teorico di questa svolta è, come hanno sottolineato tutti gli osservatori, l’economista Peter Navarro. Dal punto di vista ideologico Navarro condivide una posizione anticinese al punto di voler rilocalizzare l’industria USA e colpire la Cina con ogni mezzo3. Navarro ricopre un ruolo chiave alla Casa Bianca con l’incarico strategico di Senior Counselor for Trade and Manufacturing Policy. E’ l’ispiratore teorico del protezionismo aggressivo come pietra angolare della strategia economica statunitense. I dazi in questo contesto diventano un fine in sé, usato come barriera permanente, quasi punitiva anche verso alleati all’interno di una visione totalmente ostile nei confronti di ogni istituzione multilaterale (WTO, G7, OCSE). È, quindi una politica più ideologica e meno pragmatica anche verso gli alleati.
Al di la delle indicazioni retoriche per un reshoring accentuato, questo obiettivo è diventato essenzialmente una questione interna, quasi muovendosi verso una sorta di autarchia industriale e di “sganciamento” completo, anche dai partner.
E’ interessante ricordare il recente scontro tra Musk e Navarro. Quest’ultimo ha definito Tesla come un’“assembler”, non un vero costruttore. Musk ha risposto su X (ex‑Twitter), con attacchi durissimi. “Navarro è un vero idiota. Ciò che dice è palesemente falso” e ancora “Tesla è l’auto con più parti prodotte in America. Navarro è più stupido di un sacco di mattoni”.
La contraddizione strategica di Trump: colpire il Messico, motore del reshoring
La cartina al tornasole di questa nuova impostazione sta proprio nell’ultima uscita di luglio sull’applicazione dei dazi al Messico. Il paese è diventato in questi anni lo snodo di rilocalizzazione (reshoring) delle catene del valore nordamericane nella fase post-pandemia4. Si è arrivati a coniare l’espressione “nearshoring corridor” per descrivere una fascia industriale e logistica che si estende nel nord del Messico, parallela al confine con gli Stati Uniti — che si sta configurando come uno spazio privilegiato per la rilocalizzazione industriale vicino agli Stati Uniti, nell’ambito del processo di nearshoring (in contrapposizione alla localizzazione in paesi lontani (offshoring).
Il Messico ha potuto consolidare la sua posizione, oltre che per un tema di prossimità, per un buon mix del mercato del lavoro con costi ridotti ma disponibilità di forza lavoro qualificata, e di disponibilità di infrastrutture integrate.
L’esempio forse più emblematico è quello che ruota attorno all’area di Monterrey che si trova a meno di 200 km dal confine con il Texas con buoni collegamenti stradali e ferroviari con gli Stati Uniti. L’area produttiva nasce già negli anni cinquanta del secolo scorso come centro dell’industria siderurgica e manifatturiera pesante. Negli ultimi anni ha visto uno sviluppo enorme in diversi settori. Alcuni indicatori evidenziano la dinamica esplosiva di questi ultimi anni: il 40% dei nuovi spazi industriali di tutto il Messico sono assorbiti da iniziative di rilocalizzazione e negli ultimi quattro anni l’area di Monterrey e quella di Ciudad Juarez hanno visto una crescita della domanda immobiliare per insediamenti industriali del 50%. Infine a dimostrazione del consolidamento delle attività il 70% delle nuove attività industriali a Monterrey nascono da un consolidamento di attività industriali che si sono insediate negli ultimi tre anni5.
Il boomerang dei dazi: colpire il Messico per rafforzare la Cina
L’introduzione di dazi al 30% da parte degli Stati Uniti sul Messico, come proposto da Donald Trump, produrrebbebbe effetti potenzialmente devastanti sul processo di rilocalizzazione produttiva in divenire. Da una parte il Messico era stato scelto per ridurre la dipendenza dalla Cina, dall’altra con questa mossa, tutta ispirata alla politica interna, si mina la fiducia degli investitori internazionali che avevano scelto il Messico come piattaforma “sicura” provocando un rallentamento e plausibilmente una delocalizzazione verso altri paesi (Vietnam, India, Centroamerica). Inoltre le imprese statunitensi che avevano colto questa sfida sarebbero penalizzate nei costi e nella competitività. I settori più colpiti sarebbero quelli dell’automotive, dei dispositivi medicali che fanno perno sulle zone di Ciudad Juarez e Tijuana, dell’elettronica e dei semiconduttori. Con la crisi regionale che si innesterebbe paradossalmente si assisterebbe a un aumento della pressione migratoria verso gli USA Sempre sul piano paradossale, danneggiando la resilienza strategica dell’industria statunitense, si rafforzerebbe indirettamente la posizione di altri paesi competitor e in primo luogo della Cina,
I nuovi dazi oltre che alcuni paesi come il Messico e quelli appartenenti all’Unione Europea colpiranno anche le importazioni di rame con una imposizione del 50%. Il rame è considerato un metallo critico per la sicurezza nazionale essendo essenziale per sistemi militari, veicoli elettrici, comunicazioni. Oggi gli Stati Uniti sono il quinto produttore mondiale ma la produzione è diminuita di circa il 20% in 10 anni, con un balzo di -3% nel 2024. In compenso gli Stati Uniti devono importare una quota importante per soddisfare il fabbisogno delle proprie industrie. Secondo la Casa Bianca la misura dovrebbe incentivare la ripresa della produzione nazionale, ma secondo molti questo non potrà che avvenire nel medio lungo periodo visti anche i tempi di messa in produzione dei siti estrattivi.
Le sue posizioni sono ampiamente descritte nel suo libro No Trade is Free: Changing Course, Taking on China, and Helping America’s Workers”, 2023.
Navarro ha assunto un posizione di contrasto alla Cina da lungo tempo. Il libro Death by China: Confronting the Dragon – A Global Call to Action del 2011, scritto in collaborazione con Greg Autry può essere assunto come la sintesi della sua visione del confronto con Pechino. Secondo Navarro la Cina rappresenta una minaccia economica, politica e militare per gli Stati Uniti e l’Occidente, a causa delle sue pratiche commerciali sleali, delle politiche autoritarie e delle strategie espansionistiche. Il libro è stato oggetto di pesanti critiche soprattutto dopo che si è scoperto che Ron Vara lo studioso citato da Navarro a sostegno delle proprie tesi non esiste (il nome è un semplice anagramma del cognome dell’autore).
Su questo punto per chi è interessato rimando a una riflessione su queste pagine del 2022.
Le catene globali di valore sono una tigre di carta
Dopo aver indicato quelli che plausibilmente saranno i principali fattori di rischio che caratterizzeranno l’anno a venire passiamo ora ad approfondire i singoli scenari individuati. Aggiungiamo così oggi un ulteriore approfondimento alla presentazione del tema della
Alessandro Mendoza, Monterrey: a Leading Nearshoring Real Estate Market, Prodensa, 20 febbraio 2025 - https://www.prodensa.com/insights/blog/monterrey-leading-nearshoring-real-estate-market