Cosa metto nel mio zaino? Poche cose ma utili
(Post #126) Relazione alla XVI edizione di Previdendo
Previdendo ha l’ambizione di parlare di futuro: da qualche anno il futuro ha così invaso lo spazio delle due giornate di workshop.
La ragione di questa proiezione è scontata: facciamo parte di un mondo che si colloca all’incrocio tra l’azione finanziaria e quella sociale, cioè due ambiti che sono obbligati a immaginarsi in questa dimensione. In primo luogo perché gli obiettivi fondativi degli investitori istituzionali sociali sono legati al futuro (basta pensare ai fondi pensione). In aggiunta, perché sono gli avvenimenti futuri che possono cambiare il destino del progetto che ogni istituzione sta realizzando.
Il futuro è quindi il mondo a cui deve tendere lo sguardo della finanza e dell’azione sociale.
Kodak. Fallimento in un clic
Apro questa relazione raccontando due microstorie.
Il caso di scuola per eccellenza è quello della statunitense Kodak, un’impresa che non ha saputo cogliere l’intensità e i tempi della macro tendenza in cui era inserita. Kodak era leader nel settore delle pellicole nonché nella produzione di macchine fotografiche di facile utilizzo. Era stato il suo fondatore George Eastman a proporre già nel 1888 una macchina fotografica che poteva essere utilizzata anche da non professionisti con lo slogan “Voi premete il pulsante, noi facciamo il resto”. Kodak aveva affrontato il mondo del digitale a tempo debito, nel 1983, quando il CEO Colby Chandler aveva creato una divisione per esplorare le nuove tecnologie.
L’azienda non ha però cavalcato l’evoluzione digitale del mercato fotografico, e anche quando ha finalmente deciso di entrare nel mercato delle macchine digitali, ha contenuto il progetto temendo di fare eccessiva concorrenza ai propri prodotti. Molti anni prima dell’arrivo dei social network l’azienda aveva acquisito Ofoto, un sito di condivisione di fotografie, ma l’operazione era stata programmata per offrire il servizio aggiuntivo di stampe fotografiche. Alla fine Kodak è stata “sorpresa” dall’arrivo degli smartphone. Nel febbraio 2012 l’impresa è così costretta a presentare istanza di bancarotta assistita secondo il ben noto capitolo 11 della legge fallimentare statunitense.
Da blockbuster a flop
Un altro caso aziendale altrettanto iconico è quello di Blockbuster l’impresa fondata nel 1985 che è stata incontrastato leader di mercato nel noleggio di videocassette e dvd. Prima che questo mercato si dissolvesse completamente era arrivata a una rete di più di novemila negozi in tutto il mondo. Nel mese di settembre del 2010 l’azienda accede al Chapter 11 per poi fallire definitivamente nel 2013, non essendo riuscita a convertirsi nel mondo della distribuzione digitale.
La vicenda Blockbuster è interessante perché è speculare con quella di Netflix. Si racconta che il fondatore di Netflix Reed Hastings abbia maturato l’idea dopo aver pagato, nel 1997 una penale di 40$ per il ritardo della consegna di una videocassetta, si racconta del film Apollo 13. Per ovviare ai problemi di consegna e riconsegna la start-up di Hastings si appoggiava al canale internet e all’invio dei dvd per posta. Al posto di un costo per titolo Netflix richiedeva un canone di abbonamento senza prevedere un tempo massimo di utilizzo. Il caso ha voluto che nel 2000 Blockbuster avrebbe potuto acquistare il 49% di Netflix per soli 50 milioni di dollari.
Fallimenti sociali
Se gli errori previsivi portano spesso al fallimento delle imprese ben più gravi sono gli errori compiuti in campo sociale.
Siamo tutti consapevoli degli scenari demografici che si materializzeranno nei prossimi decenni a livello globale: denatalità, paesi popolati da una elevata percentuale di anziani e di vecchi, famiglie mononucleari, aumento della percentuali dei cittadini non autosufficienti. Siamo probabilmente anche preoccupati di quelli che saranno gli effetti di questi cambiamenti demografici: uno tsunami per il sistema sanitario, l’insostenibilità dei sistemi di sicurezza sociale.
Eppure non abbiamo adeguato i nostri comportamenti come se prevalesse in tutti noi un fenomeno psicologico di mancato riconoscimento della realtà, anzi addirittura di fuga da questa. Quella particolare forma di “dissociazione”, cioè di mancata integrazione tra le funzioni psichiche, che gli psicopatologi etichettano come escapismo. Approfondendo questo tema per scrivere la relazione ho scoperto come questa forma patologica sia ricorrentemente associata al gioco d’azzardo.
Una connessione che ha un forte valore evocativo: credo rappresenti ben più di una suggestione per rimarcare con forza e con una voluta provocazione quello che intendo affermare. Cosa è se non un pericoloso gioco d’azzardo scommettere che lo scenario demografico più catastrofico non si realizzerà?
Qualcuno a un recente convegno ha ritenuto sottolineare che non era pienamente d’accordo con me perché si sentiva una persona ottimista. Anch’io lo sono, anzi mi potrei definire un inguaribile ottimista ma le mie radici contadine hanno impresso nel mio DNA la convinzione che senza semina non si ha raccolto. Non basta la forza del pensiero per spostare gli oggetti, tanto meno il futuro. Il futuro si può costruire, ma occorre la vanga.
Potrei dilungarmi nell’elencare le prove di questo comportamento sociopatologico di massa. Ne volete uno, forse il più provocatorio di tutti? La costruzione del tessuto della sanità integrativa esclude statutariamente i pensionati dal perimetro dei destinatari.
Volete un’altra affermazione forte sugli effetti? Non convenite con me che senza una riflessione forte sul futuro dell’assistenza sanitaria non avremo più né un sistema universale né tantomeno di qualità. Per questo motivo le relazioni che abbiamo collocato al finale di domani ci danno una visione di quanto invece si può fare.
Come valutare in prospettiva l’assenza di una copertura Long Term Care nelle previsioni obbligatorie della sicurezza sociale come avviene ad esempio in Germania?
O ancora la non introduzione delle pensioni part time unica alternativa al circolo vizioso, o meglio potremmo dire viziato, di innalzamento dell’età pensionabile, creazione di un gap di copertura, aumento della spesa pensionistica, nuovo aumento dell’età pensionabile, nuovo allargamento del deficit di copertura e così via.
Eppure in assenza di un pensiero propositivo che inizia a costruire un’agenda per una società che invecchia l’alternativa è la selettività degli interventi del welfare soprattutto in campo sanitario. La prospettiva più claustrofobia e che più si avvicina ai mondi nuovi è quello dell’ageism.
Age-Ism
Nel 1969 il quarantaduenne Robert Butler, professore all’University of Sussex scriveva sulla prestigiosa rivista Gerontologist un articolo che ha fatto epoca.
Partendo dal nuovo clima culturale di una America che si scopriva razzista trovava spunto dal caso di una iniziativa avviata dall’agenzia National Capital Housing Authority per una nuovo insediamento riservato agli anziani nel area di Chevy Chase a Washington. Questo progetto aveva suscitato le reazioni degli abitanti di quello che essi stessi definivano come un quartiere di lusso. In cinque pagine che hanno fatto la storia Butler lancia il termine Age-Ism, per indicare il pregiudizio e la discriminazione basata sull’età, un fenomeno del tutto uguale al razzismo e al sessismo. Da allora il termine ha colonizzato il dibattito tra i gerontologi e Butler è diventato il primo direttore del National Institute of Aging” l’agenzia statale che si occupa di Alzheimer e ha vinto nel 1976 il Premio Pulitzer per il suo Why Survive? Being Old In America.
Ageism è oggi un tema di studio centrale. Se digito su Google Scholar, il portale di ricerca dei contributi scientifici, “ageism” ottengo 197.000 risultati. Se restringo a “Health ageism” la discriminazione per età nelle cure mediche ne ottengo 15.000
Perché proprio la discriminazioni nelle cure per i più anziani sono la frontiera che dovremo affrontare.
Vi assicuro che non sono entrato in un delirio complottista. Il 24 febbraio di quest’anno dieci gerontologi di paesi diversi hanno pubblicato sul The Journal of Gerontology della Società gerontologica americana la Carta of Florence Against Ageism: No Place for Ageism in Healthcare. Ciò che rende di straordinaria importanza questo documento è il fatto che la Carta non si limita alla denuncia ma disegna anche la strada per superare nei fatti questa distorsione propone un cambio di paradigma nella presa in carico dell’anziano. “In un’epoca in cui la percentuale di anziani nella popolazione era bassa e la longevità era rara, gli individui di mezza età con singole malattie, solitamente acute, rappresentavano la maggior parte dei pazienti in cerca di cure. Il paradigma comune e generale era quello di trattare ciascuna malattia al momento dell’emergenza clinica […]. Il mantra «un paziente, un problema» è sopravvissuto per centinaia di anni. Questo approccio ignorava i pazienti con patologie multiple, fragilità e disabilità, considerando questi problemi «normali conseguenze dell’invecchiamento», «troppo complessi» e «improbabili che rispondano alle cure» (in inglese nell’originale)”1.
Potrei terminare qui la mia relazione perché credo che questa prospettiva è già così densa di valori e di passioni da ispessire il sangue, ed è al tempo stesso emotivamente spossante e asmaticamente soffocante.
E proprio il richiamo alla Carta di Firenze ci toglie ogni alibi alla inazione. L’invecchiamento è una grande conquista dell’umanità ma non può essere una conquista da pagare con il dolore e la sofferenza. Siamo quindi chiamati ad agire: questo ci sia di ammonimento il futuro
Iniziamo a riempire il nostro zaino con la consapevolezza che il futuro si costruisce.
Un’operazione difficile
Sono consapevole che l’operazione proposta non è semplice; guardare al futuro è un’operazione, scusate il richiamo autoreferenziale, ad alto rischio. Il futuro per sua definizione non può essere conosciuto, e al massimo possono essere fatte delle previsioni. Ma quando assumiamo questa prospettiva ci spostiamo in una dimensione sdrucciolevole al confine tra realtà e immaginazione. Più vaticinio che scienza.
Nella nostra non lunga storia ci abbiamo messo molto tempo per compiere il percorso dai vaticini alla previsione razionale. C’è un bellissimo libro di Peter Bernstein che racconta questo viaggio. Emblematicamente il titolo è Against the Gods, the remarkable story of risk. “I Greci credevano che l’ordine si trovasse solo nei cieli, dove i pianeti e le stelle compaiono regolarmente nei luoghi designati con una regolarità senza eguali. Ma la perfezione del cielo serviva solo a evidenziare il disordine della vita sulla terra”2.
Conosciamo tutti gli sforzi compiuti dagli antichi per scrutare il futuro, un’attività per la quale erano previste specifiche figure sacerdotali.
Più vicino a noi l'umanesimo, collocando l'uomo al centro del proprio destino e liberandolo dal fato immutabile e incombente, ha sicuramente creato l'humus fecondo entro il quale ha trovato naturale collocazione la nozione di un futuro prevedibile e di un rischio che sia gestibile. Il passo successivo è stato pressoché naturale ed è consistito nell'individuare un linguaggio con cui esprimere e trattare questa scoperta; e questo linguaggio è stato appunto la teoria della probabilità. Le esigenze della nuova economia commerciale e l'incrocio delle vicende individuali con un modo sempre più aperto hanno fatto semplicemente il resto
Recentemente abbiamo dovuto, nostro malgrado, scoprire come l’arma più potente di cui eravamo in possesso, la probabilità, è di scarsa utilità se non addirittura sviante in un mondo di incertezza. Quindi se oggi l’incertezza è cresciuta non è che stiamo tornando indietro nel percorso che abbiamo compiuto?
La risposta sarebbe sconfortante solamente nella misura in cui ci rifiutassimo di adeguare la nostra strumentazione, le nostre euristiche e il nostro apparato concettuale. Sappiamo ad esempio che la plausibilità si pone come una sorta di terza via rispetto al ragionamento deduttivo e quello induttivo, con le proprie regole formali. Ma di questo abbiamo parlato più volte.
Possiamo così mettere nel nostro zaino il secondo strumento utile: la consapevolezza della necessità di una nuova euristica per navigare l’incertezza.
Cosa ci aspetta sul piano economico e organizzativo
Proviamo ora a ragionare sul futuro restringendo il campo di osservazione per concentrarci sui potenziali cambiamenti che possono determinarsi sul piano economico, produttivo e organizzativo. In qualità di investitori siamo, infatti, massimamente interessati a quelle tendenze che con maggiore plausibilità possono affermarsi e tra queste quelle che determinano le ripercussioni più allargate. Un’attenzione ancora più pregnante con il crescere dell’attenzione agli investimenti nell’economia reale.
Per questo oggi abbiamo selezionato espressioni di situazioni già avanzate dal punto di vista della loro realizzazione cercando di mettere in evidenza alcune peculiarità che descrivono un potenziale cambio di paradigma.
Quando il futuro si intreccia con l’economia essa il più delle volte assume la forma dell’innovazione. Mi sono quindi interrogato se fosse possibile rappresentare in forma simbolica il modo in cui nel mondo economico si manifesta questo processo, ipotizzando che da questa formalizzazione si possa ricavare un modello descrittivo che raccolga e tenga conto dei diversi caratteri del mondo che abbiamo descritto in apertura. L’obiettivo è quello di realizzare una sorta di crivello da utilizzare per discriminare tra le mille situazioni che dobbiamo analizzare quelle che possono avere una portata distruttiva della situazione data. Come vedremo questo esercizio, che qui limito alla sfera economica può essere utilizzato, con i necessari adattamenti linguistici e categoriali, per discriminare anche all’interno dell’universo dei cambiamenti che hanno una componente, diciamo per semplicità, più umanistica: i cambiamenti sociali, demografici, culturali, ecc.
Vi propongo quindi un gioco di schematizzazione.
In un recente convegno dedicato al venture capital, al quale ho avuto la fortuna di partecipare come relatore, ho ascoltato la comunicazione del professor Sannino che ha evocato una sintetica quanto efficace espressione dell’innovazione.
La formula proposta si esprime con una semplice equazione:
Innovazione = Invenzione x commercializzazione
L’espressione può essere scritta in termini formali come:
x = Ky
Dove K è la costante che esprime il potenziale innovativo della invenzione e y il “livello” di commercializzazione che l’organizzazione proponente può sviluppare a partire dalla consistenza dei fattori che può mettere in campo.
Usando il linguaggio verbale possiamo esprimere questa espressione affermando che non esiste una invenzione che sia di per sé un prodotto o un processo di successo. Sfruttando infatti la formalizzazione possiamo verificare che se la variabile commercializzazione tende a 0 anche l’innovazione si riduce a questo valore, quindi non sussiste.
La commercializzazione è a sua volta espressione di una pluralità di fattori, più articolata della semplice azione commerciale coinvolgendo l’insieme dei fattori tipici del fare impresa (disponibilità di capitale, qualità del management, struttura del mercato, ecc).
L’espressione “x = Ky” assume la forma di una funzione di una retta cioè è l’espressione di una relazione lineare. In altre parole all’aumentare del grado di capacità di commercializzazione aumenta il livello di innovazione del prodotto o del processo. La retta può essere più o meno inclinata ma il legame forte che unisce la variabile dipendente a quella indipendente rimane ristretto all’ambito della proporzionalità diretta. Espresso in termini “energetici” significa che per ottenere un livello maggiore di innovazione devo immettere nel sistema un livello di risorse per aumentare il livello di commercializzazione (capitali, sforzo pubblicitario, risorse umane, ecc.) che sarà sempre proporzionale al risultato raggiunto.
La relazione lineare di cui abbiamo appena parlato descrive il percorso della gran parte di molti nuovi prodotti. Questa forma di relazione è connaturata al nostro modo di pensare: l’uomo ha vissuto per millenni in un mondo che procedeva linearmente. Eppure alcuni “prodotti” hanno svoltato, hanno rotto la legge lineare per assumere un andamento più efficiente dal punto di vista economico, quello esponenziale. Grazie a questo fattore otteniamo un risultato di maggiore efficienza economica della funzione: l’output è crescente rispetto all’input: ogni sforzo aggiuntivo per meglio tarare la spinta di commercializzazione produce un effetto più che proporzionale. superiore, di espansione.
Il punto di svolta si realizza quando un prodotto o processo innovativo incontrano un innesco di una crescita esponenziale. Non ci sarebbe stata la crescita di Uber o della distribuzione dei cibi a domicilio senza lo sviluppo dell’internet diffuso e degli smartphone
Mi si scuserà, così, se a partire da questo momento incomincio a manipolare la formula a uso e consumo del ragionamento che voglio proporvi. Sono, infatti, convinto che questa formulazione possa essere ulteriormente implementata introducendo un altro termine, l’esponenzialità, la caratteristica più stringente del mondo che stiamo vivendo.
Posso riscrivere la funzione per tener conto di questo nuovo fattore.
Una volta che abbiamo ridotto l’espressione economica a una formulazione matematica possiamo considerare che, come tutte le funzioni, anche quella che abbiamo ricavato ha un suo dominio, cioè essa ha una soluzione solamente in una parte definita del piano. Nel caso delle innovazioni di prodotto o di processo il dominio è rappresentato dalla dimensione del mercato. Si ottiene una innovazione di portata rivoluzionaria solamente se essa può essere destinata e utilizzata da un mercato dimensionalmente significativo.
Allora possiamo arrivare a scrivere la formulazione finale del nostro pensiero
per
Dove p è la dimensione del mercato (esistente o potenziale) e q una dimensione soglia sopra la quale si configura un mercato che abbia dimensioni sufficienti per cui l’innovazione trovi da una parte una sua giustificazione economica e dall’altra possa assumere un impatto tale da determinare un vero e proprio cambiamento di paradigma. Questa affermazione va assunta nella sua portata generale e semplificatrice e non significa ovviamente che non si realizzi innovazione in mercati di nicchia.
Ho giocato con le variabili perché l’espressione in questo modo è generalizzabile. Questo significa che potremmo dire che un’invenzione sociale, o più genericamente un cambiamento radicale, diventa innovazione, cioè motore della trasformazione se presenta caratteristiche di fruibilità e utilizzabilità (commercializzazione sociale).
In termini matematici stiamo trasformando questa equazione nell’espressione di uno spazio topologico. Ricordo a me che ho lasciato gli studi tanti anni fa che uno spazio topologico, senza entrare nel merito che questa nozione, identifica entità matematiche simili sulla base di proprietà fondamentali dei concetti che permettono di definire una nozione di continuità e di identità rispetto alle stesse
Espressa in questo modo possiamo dire che, con l’aggiunta della variabile incertezza, diventa una descrizione del mondo di oggi. Ad esempio risulta molto utile per esprimere il mondo dei rischi.
Aggiungiamo così un nuovo strumento nel nostro zaino, una chiave di lettura per comprendere quale tra tutti i mondi plausibili presenta le condizioni più favorevoli per realizzarsi.
Gli ultimi attrezzi
Ritorniamo ad essere problematici, in quella alternanza di emozioni che si trovano normalmente negli individui dalla coscienza alterata e non potrebbe essere altrimenti tra i marosi di incertezza e accelerazione.
La velocità dei cambiamenti impedisce il più delle volte di trovare una razionalizzazione del sistema di relazioni e delle implicazioni “filosofiche” del cambio di paradigma.
Confesso di essere rimasto colpito dalla scelta dei premi nobel per la fisica di quest’anno che sono stati assegnati a John Hopfield della Università di Princeton e Geoffrey Hinton dell’Università di Toronto. In particolare Geoffrey Hilton è stato premiato per la sua scoperta dell’algoritmo di back propagation alla base dell’apprendimento automatico con le reti neurali.
Dopo una fase pionieristica iniziale, che ha caratterizzato le prime ricerche degli anni 70/80 dall’inizio di questo millennio l’Intelligenza artificiale ha rinunciato all’idea di risolvere i problemi in modo logico simbolico deduttivo. Abbandonato l’approccio della logica formale il metodo di apprendimento procede utilizzando i dati secondo le tecniche del machine learning: sostituzione della regolarità statistica alla ricerca di modelli teorici cognitivi, preferenza della capacità predittiva rispetto a quella conoscitiva, indirizzo verso un risultato efficace al posto della forza esplicativa, Siamo di fronte all’esaltazione di una black box contrapposta alla bellezza teorica e formale della logica deduttiva e assiomatica. Non è un caso che il libro assieme alla Bibbia più letto nei secoli e al tempo stesso uno dei più affascinanti sia gli Elementi di Euclide, con la bellezza di quel pensiero che ricostruisce l’intero universo geometrico procedendo da cinque semplici postulati.
Ma imparare dai dati è quanto mai produttivo a condizione di avere a disposizione macchine sempre più potenti e dati sempre più numerosi. Nessuno ha la ricetta esplicita di come tradurre un testo, soprattutto diventa quanto mai complesso spiegarlo a una macchina. Una macchina informatica impara più velocemente dagli esempi trattati con le reti neurali senza necessitare di una spiegazione. Lo attestano le scoperte premiate con l’altro Nobel di quest’anno per la chimica: il riconoscimento va per la messa a punto nel 2020 di AlphaFold2 un modello basato sull’intelligenza artificiale per predire la struttura molecolare delle proteine. Prima dell’intelligenza artificiale ci volevano anni per predire questa struttura, con AlphaFold2 si riduce a poche ore con un livello di accuratezza salito dal 30% al 90%.
Di fronte alla colonizzazione che l’intelligenza artificiale sta compiendo in tutte le discipline la tentazioni più naturali sono l’entusiasmo da una parte e la paura dall’altra. A questo proposito vale la pena ricordare molta fantascienza che evoca la rivolta delle macchine sull’uomo. Da lì il passo per cadere nel luddismo è relativamente breve.
In un libro molto acuto Nello Cristianini, docente di intelligenza artificiale a Bath nel Regno Unito, dedicata alla storia della intelligenza artificiale, racconta la vicenda che ha contrassegnato la vicenda di Amazon quando i redattori che sviluppavano le recensioni dei libri che erano consigliati ai clienti della casa distributrice sulla base di un questionario compilato dagli stessi iniziano a venire sostituiti dal modello statistico messo a punto a partire dal 1998 dal Perzonalization team che formulava i suggerimenti di lettura sulla base delle statistiche dei comportamenti di acquisto dei consumatori.
L’intelligenza non è un prerogativa degli esseri umani; inizia così il libro di Cristianini che ho appena citato “Dimostrare intelligenza non significa assomigliare agli esseri umani, ma essere capaci di comportarsi in modo efficace in situazioni nuove. Questa capacità non richiede un cervello: la possiamo trovare anche in piante, colonie di formiche e software”3. Intesa in questo senso l’intelligenza prescinde dall’esistenza dell’uomo e sicuramente lo ha anticipato. Esplicitamente Cristianini ci invita ad abbandonare un visione antropocentrica della intelligenza e abbracciare invece un modo più relativo che non necessariamente sia organizzato secondo una onnicomprensiva e unica scala gerarchica che va dal meno al più intelligente.
Confesso di poter affermare che questa proposta di lettura abbia scatenato su di me una cascata di riflessioni e emozioni. Da quelle più razionali e scientifiche che hanno a che fare con la potenza euristica di questo approccio a quelle più intime legate al senso del tempo e del perché.
Come può essere composto questo smarrimento?
Una visione meno antropocentrica della intelligenza è consolatoria per le mie angosce. Se in fin dei conti l’intelligenza artificiale non deve essere misurata sulla stessa scala della nostra capacità intellettiva possiamo così per un attimo trascurare questa preoccupazione e concentrarci su di noi, come esseri umani. Lasciamo quindi lavorare il futuro ma se vogliamo abitarlo o almeno viverci bene è a noi stessi e ai nostri comportamenti che dobbiamo rivolgere l’attenzione.
Cosa contraddistingue quindi la nostra forma di intelligenza che è multiforme, e che è anche emozionale?
In primo luogo la passione. Un tema che riecheggia spesso in questa sala e che è emblematicamente rappresentata nel logo di Previdendo. La passione come esaltazione di un fine non meramente utilitaristico, un po’ utopica e un po’ folle. Una passione che assume quindi un valore ontologico. Una passione che vale, però, nella misura in cui non sia confinata, né nello spazio né del tempo personale. Un sacerdote ha scritto una frase in cui mi riconosco completamente: “la passione per il mondo e non per la nostra stanza dei giochi nel mondo”4.
In secondo luogo l’umanesimo cristiano, che è in estrema sintesi il riconoscimento dell’unicità di ogni singolo individuo. Un recente documento del Dicastero per la dottrina della fede che ha fatto storia per i temi affrontati titola Dignitas infinita. Una dignità infinita che è caratteristica fondante di questa unicità, e che fondata nel suo stesso essere. Una dignità che è multiforme ma che è soprattutto ontologica e morale e che è “messa in risalto soprattutto dall’umanesimo cristiano del Rinascimento”5.
Infine la tenerezza. Non so quanti di voi hanno presente il calco pompeiano che gli archeologi hanno soprannominato la famiglia della casa con il bracciale d’oro e che proprio in questi giorni stando alla risultati delle ricerche sul genoma pubblicata abbiamo scoperto essere un gruppo di quattro persone senza alcun legame familiare. O i corpi abbracciati ritrovati nel Criptoportico di Pompei. Figure unite probabilmente nella rappresentazione plastica di quel comportamento psicologico che avvicina le persone anche se sconosciute tra loro nel momento di un pericolo estremo. Frutto della atavica abitudine di fare gruppo per affrontare meglio i pericoli e al tempo stesso manifestazione di una tenerezza che riesce a esprimersi nella sua espressione più pura quando non c’è più nulla a trattenerci.
Insomma l’immagine immortale della tenerezza.
Passione, umanesimo cristiano, tenerezza: sono sicuramente queste le cose più preziose da portare nello zaino nel viaggio verso il nostro futuro.
https://www.sigg.it/wp-content/uploads/2024/03/charta-of-florence-j-gerontology.pdf
Peter L. Bernstein Against the Gods, the remarkable story of risk, John Wiley & Sons, 1996
Nello Cristianini, La scorciatoia. Come le macchine sono diventate intelligenti senza pensare in modo umano, Il Mulino 2023
Don Giussani, Si può veramente vivere così?, Rizzoli 1994
Dicastero per la dottrina della fede, Dichiarazione Dignitas Infinita circa la dignità umana - https://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/documents/rc_ddf_doc_20240402_dignitas-infinita_it.html