“Sorella cenere è casta”. Non esiste un efficace controllo dei rischi senza un’etica dei comportamenti
Relazione alla X edizione di Riskshop
Benvenuti a Pavia, benvenuti nella mia città. Benvenuti da parte di tutta BM&C Società Benefit.
Ci ritroviamo ancora una volta a parlare di rischi, e per quanto riguarda RiskShop siamo arrivati alla decima edizione.
Confesso che spesso mi pongo una domanda. Non sarà che questo ritornare ripetutamente a commentare gli scenari di rischio finisca per provocare una sorta di assuefazione nei miei e nei nostri interlocutori? Un’abitudine ad ascoltare plausibili scenari avversi cha abbassa il livello di guardia e di reazione, un po’ come avviene di fronte ai tanti orrori con i quali siamo destinati a convivere e che sono oggetto di una banalizzazione del male proposta dal flusso informativo dei media.
Il controllo dei rischi deve essere utile
Il valore della domanda trascende quindi la contingenza e si trasferisce nel campo della efficacia propositiva e comunicativa delle proposte di lettura dell’universo dei rischi che convogliamo verso i nostri interlocutori. E’ questa una questione di grande rilievo in quanto il monitoraggio che svolgiamo assume senso solamente nella misura in cui si traduce in un processo intuitivo quanto più possibile anticipatorio delle minacce possibili. Il problema non è descrivere i rischi potenziali, non c’è quindi un ambizione estetica o accademica, l’obiettivo è individuarli per mitigarne gli effetti sui portafogli finanziari e sulle attività economiche.
Sono tornato a pormi con una certa insistenza questa domanda proprio nelle ultime settimane. Si è appena chiuso il periodo delle assemblee di bilancio e come ogni anno ho avuto la fortuna di essere invitato a trattare i temi che mi competono; soprattutto chiamato a spiegare quanto è avvenuto sui mercati finanziari durante lo scorso anno.
Nell’organizzazione di questa partecipazione ho trovato divertente e curiosa una indicazione che non può essere solo frutto di una coincidenza; la dico in parole povere, una richiesta a non terrorizzare la platea.
La cosa mi ha fatto lungamente pensare e ho provato per un attimo a immaginare se alla fine troppo spesso non vestissi un saio scuro. Nella sua orazione forse più famosa, conosciuta come Predica della Rinnovazione (13 gennaio 1495) Girolamo Savonarola ammonisce i fiorentini: “Così al Faraone furono mandati tanti miracoli, ma sempre stette obstinato. E però Firenze aspetta il flagello, che sai quanto tempo ti è stato detto che tu ti converta e sempre se’ stata obstinata”.
Lungi da me ogni tentazione apocalittica. Che poi personalmente trovo Savonarola un personaggio insopportabilmente cupo e inverecondamente opprimente, soprattutto nella versione del castigatore dei costumi e del paladino delle masse con cui viene generalmente ricordato.
Fallirei nel mio scopo e ancor di più nel mio ruolo professionale se alla fine mi limitassi a vestire i panni di un personaggio in cerca di autore che occupa un posto fisso e rituale nell’articolato scenario della industria finanziaria.
Per questo cerco di riproporre ostinatamente anche oggi una lettura dei fatti economici e finanziari che si occupi della realtà più che del “dover essere”. Il rischio non è un accidente della storia ma, al contrario, è il protagonista centrale del racconto che stiamo narrando. Di questo dovrebbe tener conto la finanza che non può trovarsi regolarmente impreparata al succedersi degli eventi extra economici che hanno un impatto determinante sui valori degli strumenti finanziari.
Così, da parte mia, persevero, e come racconta il Collodi, “il Grillo, che era paziente e filosofo, invece di aversi a male di questa impertinenza, continuò con lo stesso tono di voce”
Spero comunque che nessuno di voi raccolga dal “banco un martello di legno” per scagliarmelo conto. Anche perché il povero Pinocchio “Forse non credeva nemmeno di colpirlo: ma disgraziatamente lo colse”.
Inflazione: una fatto storico-economico da studiare
Nell’ultimo anno l’inflazione ha riportato l’attenzione su un tema prettamente economico, dopo un lungo periodo di dominio dei temi extrafinanziari. Se però analizziamo le cause dell’impennata dei prezzi ci rendiamo conto che quanto è avvenuto, anziché contraddire l’importanza dei fattori extra finanziari, conferma l’origine esogena delle dinamiche monetarie che hanno generato i record del 2022.
In primo luogo la guerra come fattore scatenante; ma non solo la guerra.
L’invasione dell’Ucraina ha portato con sé un aumento del prezzo delle materie prime energetiche. Questo aumento non è stato una mera conseguenza “tecnica” della guerra e delle sanzioni contro la Russia ma ha anticipato di diversi mesi l’inizio delle ostilità ed è stato utilizzato dal Cremlino per assicurarsi una posizione morbida dell’Occidente, e dell’Europa in particolare. I futures del gas che erano trattati a una media di 20 Euro erano già saliti a quota 120 Euro nell’ottobre del 2021, quando più massiccio è stato l’ammassamento di truppe ai confini dell’Ucraina per arrivare a 180 Euro tra dicembre 2021 e gennaio 2022, poco tempo prima dell’invasione del 24 febbraio.
Dalla guerra ha origine anche l’impennata dei prezzi di alcuni generi alimentari di base. Il blocco delle esportazioni dall’area del Mar Nero per la prima dopo decenni ha riproposto anche nei paesi sviluppati un tema di sicurezza alimentare, non qui intesa come espressione della qualità del cibo, quanto più materialmente come pericolo del venir meno della continuità degli approvvigionamenti.
Un’ulteriore concausa dell’inflazione deriva dalle disarticolazioni che si sono prodotte nelle catene di valore, quelle che una volta si chiamavano filiere produttive. In primo luogo vi sono state enormi tensioni nella logistica che sono state in gran parte una conseguenza di quelle che possiamo chiamare le code del COVID, esasperate dalla politica di tolleranza zero adottata dalle autorità di Pechino.
Anche in questo caso però siamo di fronte a un problema ben più sostanziale: l’esplosione di tutte le contraddizioni e le fragilità di un modello di delocalizzazione che ha finito per concentrare, soprattutto in Cina, una molteplicità di produzioni strategiche.
Se la vera criticità consiste nella fragilità di questo modello, l’attenuarsi delle tensioni non può che essere temporaneo ed è destinato a riproporre ciclicamente nuovi stress. Talvolta la crisi potrà coinvolgere una singola categoria di prodotti come sta avvenendo proprio in questi mesi con la mancanza sugli scaffali dei prodotti a base di amoxicillina, tra cui il popolare Augmentin, conseguenza diretta del fatto che quasi il 90% della produzione dei principi attivi degli antibiotici è concentrata in Cina. Altre volte potrebbe assumere i caratteri sistemici di una crisi globale.
Alcuni insegnamenti
Dalla vicenda inflazione traiamo anche indicazioni che confermano aspetti tipici e caratterizzanti degli scenari di incertezza.
Colpisce in primo luogo la velocità con cui si è realizzata la salita dei prezzi. E’ altrettanto significativa l’intensità degli effetti che si sono riverberati sui mercati finanziari. L’inflazione ha raggiunto in pochissimi mesi un livello che non era stato mai raggiunto da decenni: per avere una inflazione così alta negli Stati Uniti bisogna andare alla Presidenza Reagan e in Italia al Governo Craxi.
Come molti, mi sono interrogato sulla relativa inefficacia delle intense politiche monetarie adottate dalle Banche centrali e la spiegazione più intelligente che ho trovato riguarda il fatto che a contribuire principalmente alla salita dei prezzi sia stato il settore dei servizi. Questo settore è strutturalmente meno reattivo alle strette sui tassi, per il suo differente bisogno di capitale rispetto all’industria. Insomma quanto sta avvenendo dimostra anche che i cambiamenti nella struttura economica e sociale possono mettere in discussione l’efficacia stessa delle tradizionali politiche monetarie. E’ questo non è altro che un’ulteriore manifestazione delle nuove complessità.
Mi sono soffermato a lungo sul tema inflazione, lo confesso, per la sconforto che non riesco a celare, di fronte all’ottusità e alla sicumera che ho riscontrato in molti miei interlocutori nel voler negare quello che era lì pronto per essere compreso, almeno dai primi mesi del 2021. Lo stesso sconforto che ho provato discutendo della guerra incombente o della inevitabile crisi di Credit Suisse.
Un modello di interpretazione della realtà
Con questo non intendo attribuirmi capacità divinatorie che inevitabilmente avrebbero anche un connotato iettatorio. Non c’è pero dubbio che le potenzialità previsive siano collegate all’assunzione dell’euristica della plausibilità che postula di non scartare le ipotesi che la probabilità confinerebbe nella marginalità.
La plausibilità ovviamente non assicura successi previsionali. Molti sono gli scenari che per fortuna non si sono concretizzati. Infatti non tutti i rischi che vengono individuati si concretizzano in eventi negativi e soprattutto non tutti i rischi vengono individuati. E’ una condizione che potrei definire naturale e questa limitazione cognitiva è compatibile con una interpretazione del mondo che pone l’incertezza come forza demiurgica, creatrice della realtà.
Non tutti i rischi sono uguali a spesso per alcuni sono uguali gli effetti
Inoltre non tutti i rischi hanno un impatto generalizzato e una uguale incidenza.
La pandemia di COVID è stata diversa dall’attuale epidemia di Dengue che imperversa in America Latina; l’attentato alle torre gemelli è stato diverso da altri compiuti dall’ISIS, ad esempio quello della notte dell’ultimo dell’anno 2016 al Reina, a Istambul, con i suoi 39 morti.
La differenza non sta solo nel numero delle vittime e nemmeno nel differente peso iconico degli eventi. La pandemia ha provocato uno sconvolgimento sociale ed economico globale, le Torri gemelle sono state il punto di svolta di uno scontro che a tratti è diventato di civiltà. Gli altri episodi richiamati hanno avuto un impatto geograficamente e socialmente circoscritto.
L’attentato del 11 settembre del 2001 ha avuto anche il portato di una immensa tragedia umana. L’attentato del Reina ha avuto un’eco diverso, i numeri delle vite perse è stato immensamente inferiore, in qualche modo è stata una tragedia che potrei definire, consentitemelo, più intima, confinata ai poveri ragazzi che hanno perso la vita e alle loro famiglie.
Eppure tutti questi eventi hanno qualcosa in comune: se consideriamo gli effetti in termini soggettivi, per le vittime l’esplosione di una bomba in una stanza chiusa non è poi così diversa dalla distruzione delle Twin Towers.
Così rifacendosi al mondo che noi pratichiamo, le grandi recessioni e le crisi finanziarie sistemiche hanno un portato diverso da singoli episodi di default, eppure per molti protagonisti l’effetto è uguale: perdita del posto di lavoro, dissoluzione dei propri risparmi, disagio sociale, impatto sulle famiglie.
Se per i fondi pensione, cioè gli investitori tipici di lungo periodo, esistono dati incontrovertibili che attestano la loro capacità di riassorbire le perdite dei periodi di maggiore turbolenza, allo stesso tempo essi sono anche contenitori di migliaia di percorsi individuali e unici nella loro soggettività. Ebbene le fasi di drawdown producono una elevata sofferenza economica quando le stesse coincidono con i momenti programmati di uscita di gruppi o di singoli aderenti, o di richieste di una anticipazione, o ancora di un riscatto per perdita dell’attività lavorativa.
Proprio per queste ragioni dobbiamo imparare ad assumere rispetto per le vicende di quanti sono toccati da questi eventi rinunciando alla tentazione di liquidare tali eventi come un accidente senza rilevanza, con la supponenza che può esprimere solo chi non è direttamente coinvolto.
Un mondo che brucia
Inoltre dobbiamo considerare come siamo immersi in un mondo che cambia continuamente, e sempre quando il mondo cambia, allo stesso tempo brucia.
Non possono esistere situazioni in cui si disfano realtà consolidate e si formano nuovi equilibri che non siano accompagnate da grandi perturbazioni. E le stesse sono tanto più accentuate tanto più ci avviciniamo all’epicentro di questi processi. E così anche in natura. E’ lungo le faglie tettoniche che si generano le scosse telluriche più intense e devastanti. Come potrebbe non valere per la trasformazione degli assetti internazionali?
Anche se oggi in molti trattano di geopolitica, pochi di questi ragionamenti superano il substrato di luoghi comuni.
E’ pur vero che il più delle volte non è immediato cogliere questi cambiamenti, altrettanto difficile è agire di conseguenza. Con una felice scelta Bertolt Brecht ha titolato “La contenibile ascesa di Arturo UI” il racconto immaginario dell’ascesa del gangster Ui all’interno del mondo dei mercati ortofrutticoli di Chicago, metafora della parabola ascendente hitleriana. L’epilogo è lapidario: “E voi, imparate che occorre vedere e non guardare in aria; occorre agire e non parlare. Questo mostro stava, una volta, per governare il mondo! I popoli lo spensero, ma ora non cantiamo vittoria troppo presto: il grembo da cui nacque è ancor fecondo”
Il grembo ha effettivamente partorito ancora e i nuovi Arturo UI sono oggi Putin, Xi e Erdogan, con i loro epigoni minori e caricaturali; i sanguinari omuncoli che seminano dolore a Teheran a Managua e a Caracas.
I riti delle élite. La confort zone dei nuovi ignavi
Se è complessivamente difficile cogliere le tendenze in atto sembra esserlo ancor di più per le élite culturali a cui sarebbe affidato il compito di produrre conoscenza e quindi azione.
Uno dei difetti delle élite culturali è quello di essere immersi nei propri riti distintivi. Vi propongo un buon esempio che sintetizza questo atteggiamento che è al contempo culturale e comportamentale. Durante l’epoca vittoriana il rito del te, sacro per tutte le classi sociali di quella che era la potenza mondiale del momento, nascondeva l’esercizio di un rito distintivo. La questione apparentemente minimale riguarda la successione con cui viene versato nelle tazze il te e il latte. La rilevanza è collegata con la qualità della porcellana del contenitore. Le porcellane più scadenti sono quelle più fragili e quindi più sensibili al calore, e versare per prima il latte tiepido riduceva le possibilità di rottura. Al contrario le porcellane più pregiate consentivano di versare la bevanda calda direttamente nella tazza. Così l’ordine in cui si versava il latte era oggetto distintivo di un comportamento delle élite. E “MIF”, milk in first, è così diventato un sinonimo di classe sociale inferiore.
E il Tea in First, il tratto distintivo elitario, è per la finanza un insieme di sofisticati quanti inefficaci modelli probabilistici, nonché il ricorso all’inglese come mezzo espressivo dei concetti più banali; la divisa di un club di eccellenza. Espressioni di appartenenza alle élite più consone ad un mondo cambiato. Come ha scritto Elizabeth Currid-Halkett, nel suo The Sum of Small Things, oggi le élite "rivelano la loro posizione di classe attraverso significanti culturali che trasmettono la loro acquisizione di conoscenza e sistema di valori: conversazioni a cena intorno a pezzi di opinione, adesivi per paraurti che esprimono opinioni politiche e sostegno a Greenpeace e azioni come presentarsi ai mercati dei contadini".
Riti che però non sono in grado di compensare il deficit di comprensione che si è ormai andato stratificando. E’ triste osservare che quanti si fanno forti della nottata che deve passare non posseggono nemmeno la grandezza tragica raccontata da Joseph Roth ne La Cripta dei cappuccini, affresco mirabile di un intero mondo, quello dell’impero austro-ungarico che andava scomparendo. Un epilogo racchiuso nello struggente finale quando il protagonista, il barone von Trotta, si dirige alla cripta dove sono sepolti gli imperatori di un mondo finito, in una delle “notti di Vienna che erano piene di rughe e avvizzite, simili a nere donne in là cogli anni”.
Essi assomigliano invece di più ai grotteschi protagonisti dei dipinti di Otto Dix o di George Grosz.
Una bussola impazzita
Mi rendo conto che sono talmente tanti i temi di crisi, gli scenari in evoluzione, le possibili tensioni geopolitiche, la velocità dei cambiamenti che è difficile districarsi e soprattutto trovare una via maestra.
Tutto si sta ormai rimescolando in una centrifuga che assomiglia sempre più a un tritatutto. In una recente intervista Franco Farinelli uno dei più importanti geografi italiani ha acutamente osservato:
“Nel nostro quotidiano abbiamo bisogno di mappe, ma sappiamo che la globalizzazione si fonda sul modello opposto e contrario, in cui gli uomini e le cose si spostano continuamente. In più oggi lo spazio è in crisi perché la Rete ha annullato le distanze: informazione e denaro si spostano attraverso la Rete in un battibaleno. Tutti i principi che conoscevamo saltano nel mondo globale e con la Rete: la distanza tra due punti è ormai un valore residuo”. Ma la geografia è centrale e con essa la geopolitica. Essa è la base giustificatoria e legittimante al tempo stesso della guerra in Ucraina e delle rivendicazioni di Pechino sul Mar Cinese Meridionale.
Ritrovare il sentiero
La domanda che non possiamo quindi evitare é come orientarsi in questo inestricabile groviglio senza cedere alla tentazione di una deterministica rassegnazione?
Per offrirvi la mia risposta ricorro come sempre faccio alle suggestioni di un libro. L’epoca in cui è stato scritto: una delle più fosche dell’umanità, gli anni dell’avvento del nazismo. L’autore: Walter Benjamin, un ancora giovane intellettuale ebreo che sopraffatto dall’angoscia degli avvenimenti si toglierà la vita in una stanza dell’Hotel de France, nella cittadina catalana di Portbou. Il libro: Uomini tedeschi.
Benjamin sente il bisogno di rispondere alla crisi della ragione che porterà alla guerra mondiale come gli è più congeniale, contrapponendo alla tragedia della irrazionalità e della crudeltà, un’antologia di lettere scritte da intellettuali tedeschi del passato che con il loro pensiero rappresentano una linea di cultura incompatibile con il nazismo. Un modo molto mite per riaffermare l’essenza dell’uomo e per testimoniare in un momento tanto tragico e disperato la potenza del pensiero e soprattutto dell’etica personale.
Ma in questa proposizione che all’epoca appariva quasi imbelle di fronte ai disastri della guerra immanente sta tutta la lungimiranza dell’intellettuale che quasi premonitore getta le basi per la futura rinascita. Rinascita che impronta il dopoguerra, perché gli anni del dopoguerra sono soprattutto anni spirituali, attraversati anche in politica da figure straordinarie, Dossetti, La Pira, De Gasperi, Pastore, Spinelli e gli altri europeisti in Italia, Jean Monet, Robert Schuman, Konrad Adenauer in Europa.
Perché dunque partire da qui? Perché anche oggi, fatte le debite differenze, stiamo vivendo una stagione di smarrimento e incertezze, di perdita di identità e di valori.
E in questo mondo pieno di incertezza, la finanza affronta le sue debolezze. Debolezze che sono in primo luogo culturali, contrassegnate da una incapacità di abbandonare la confort zone di una posizione elitaria.
Come sta reagendo alla crescita dei rischi il mondo dei regolatori, cioè quello degli arbitri della partita della industria finanziaria?
La soluzione è affidata alla iper-regolamentazione che in quanto tale è a tratti asfissiante, a tratti inutile, molto spesso semplicemente dannosa per gli effetti collaterali che è in grado di produrre.
Ma è sufficiente? Se osserviamo con attenzione la realtà registriamo come a ogni incremento di regole sia corrisposto uno scatto degli episodi di rottura, della successione di scandali, o talvolta semplicemente di inefficacia delle linee di difesa. Ho un ricordo di quello che una volta si chiamava sussidiario sul quale molti di noi hanno iniziato a formare la propria cultura: una fotografia dei generali francesi che osservano compiaciuti la Linea Maginot, il complesso di fortificazioni che avrebbe dovuto difendere la Francia dalle orde barbariche tedesche. Il motto delle truppe stanziate lungo la linea era On ne passe pas, non si passa.
Mi spiego con un esempio: Il mondo del credito è cambiato e la sua Linea Maginot è la patrimonializzazione. Poi scopriamo che in realtà le banche saltano per un effetto liquidità. Nessuna banca può resistere alla spallata inarrestabile dello svuotamento dei propri depositi. E non c’è argine che tenga testa a questa onda.
Perché un’etica dei comportamenti
E poi c’è il tema che rimanda al titolo del mio intervento: l’etica dei comportamenti.
Mentre costruivo la parte finale di questo intervento mi chiedevo per quale motivo avrei dovuto chiedere uno sforzo a tutti voi per seguirmi su un tema volutamente provocatorio che rimanda al sistema di valori.
La risposta immediata è “perché credo nella potenza delle idee”.
Ma volendo rimanere nel “tecnico” mi sono detto che in fin dei conti tutti i discorsi della finanza traboccano oggi di temi ESG, e quindi in qualche modo vi dico che siete voi che mi avete trascinato lungo questa strada. ESG non è altro che la versione formalizzata e direi neutralizzata, sbiancata, depurata, di un concetto con una valenza più piena e rotonda: sviluppo sostenibile. Un concetto, quest’ultimo, che è per sua costruzione progressivo perché questo è il valore semantico di sviluppo, che incorpora una direzione che potrei definire teolologicamente ordinata.
Ma cosa dovrebbero essere i temi ESG, se non si vogliono fermare ad essere un algida rappresentazione di una nuova ideologia o, nel peggiore dei casi, solo un affascinante tema commerciale?
Quando frequentavo il liceo amavo la storia e mi muovevo a mio agio nell’ottocento passionale e turbolento. Mi spostavo, così, velocemente da un capitolo all’altro dei libri che raccontavano quel mondo in fermento, ma ancora più veloce di me si muoveva un uomo che si materializzava ovunque scoppiasse un moto popolare, Filippo Buonarrotti, un ribelle per amore o chissà per professione. Lo incontravi in Corsica a fianco dei primi indipendentisti, a Oneglia con Bonaparte e poi a Parigi con gli oppositori di Bonaparte.
Ve lo immaginate quest’uomo sacrificare la propria vita perché si è innamorato della percentuale di energia rinnovabile usata da ogni impresa, o delle modalità tecniche di formazione delle liste di minoranza per l’elezione dei sindaci nelle assemblee delle società quotate o del perseguimento tecniche di silvicultura che non comportino una “riduzione significativa dell’approvvigionamento sostenibile di biomassa forestale primaria idonea alla fabbricazione di prodotti di legno”?
E così arriviamo all’etica, anzi ci caschiamo letteralmente dentro. E l’etica ha a che fare con le persone e quindi è contenuto di quella “S” tanto bistrattata dell’ESG.
Un’etica che ha a che fare con i rischi, o meglio con la constatazione di come la regolazione non possa nulla quando viene sistematicamente violata dal comportamento degli uomini. Che i più grandi disastri finanziari siano direttamente o indirettamente determinati da violazioni delle regole e che le stesse siano imputabili a scelte consapevoli contrarie a ogni etica personale è inconfutabilmente vero.
Qualcuno potrebbe considerare questa osservazione semplicistica. Rimando al mittente questa accusa sfidandolo a trovare un modello interpretativo altrettanto esauriente. In attesa che qualcuno mi offra una differente soluzione esplicativa continuo con pazienza con il mio filone di ragionamento.
Alle origine del mercato moderno
Ho letto molto e con ossessiva avidità in questi anni per comprendere e trovare le ragioni, ma senza trovare una spiegazione che superasse la psicologia spicciola. Alla fine mi sono reso conto che stavo attingendo alle letture sbagliate. Per trovare le risposte dovevo rivolgere la mia attenzione al pensiero di chi ha vissuto nell’epoca storica in cui è nato il nostro rapporto con il denaro. E’ infatti nelle fasi primordiali che tutto appare più chiaro e lucido, scarnificato nella sua essenzialità, nel momento in cui le forze generatrici si esprimono in tutta la loro sventata naturalezza.
E’ quindi interessante rileggere il motivo per il quale i pensatori medievali collocavano l’avarizia in cima a tutti i vizi. Ogni vizio si esprime e si manifesta nella sua espressione più essenziale in una bramosia e in un eccesso di desiderio. Però se ben pensiamo tutti i vizi, quando hanno raggiunto il desiderio che li anima si appagano, almeno per un poco. Pensiamo alla golosità, che si attenua dopo aver mangiato oltre misura. L’avarizia, al contrario, si alimenta continuamente, senza sosta; l’avaro incrementa continuamente la sua voglia di denaro che non si placa ma si alimenta tanto più cresce il possesso.
Il monaco orientale Evagrio Pontico, aveva scritto nel IV secolo d.c. che l’avaro è come il mare che non si riempie mai pur ricevendo l’acqua di tutti i fiumi della terra (in “Gli otto spiriti maligni”).
Il teologo del XII secolo Alano di Lilla ha scritto che l’avarizia è un peccato contro natura perché “oltrepassa il confine che separa il necessario dal superfluo”. Conferma la filosofa contemporanea Carla Casagrande “Rivolto al superfluo il desiderio dell’avaro non può che essere infinito, ma nella misura in cui è infinito è anche necessariamente frustato poiché le ricchezze, per quanto numerose e luccicanti siano, sono sempre comunque finite.”
Che la questione della finanza e in estrema sintesi del denaro abbia a che fare con l’etica è un fatto storico acquisito che rimanda ai momenti fondativi in cui si afferma la legittimità di uno spazio finanziario all’interno della società occidentale. Lo storico Giacomo Todeschini scrivendo sul mercato e la razionalità economica moderna ha osservato “il mercato nasceva sotto il segno di una dialettica fra due elementi: da un lato la prassi contrattuale quotidiana […]; e dall'altro i linguaggi dottrinali che sistemavano questa prassi all'interno di quadri ideologici di antica tradizione fondamentalmente impostati dalle nozioni di salvezza, riuscita, utilità collettiva, profitto spirituale”.
Non sono in grado di aggiungere molto a questo filone di ricerca che mi appassiona se non riportandone qui ulteriori frammenti che aiutano a sostenere la mia tesi.
Un libretto del 2005 del Professor Alessandro Ghisalberti dell’Università Cattolica titolato “Il guadagno oltre il necessario” racconta la vicenda dell’abate cistercense Aelredo di Rievaulx che ha riflettuto su come rispettare i precetti evangelici mettendo a frutti i beni economici e ha scritto di come si comporta correttamente “colui che facendo circolare la ricchezza rende partecipi gli altri delle proprie fortune, consapevole che questo comportamento economico gli procurerà la Salvezza: in altre parole, confermando il valore strumentale della ricchezza nel processo salvifico”.
Un concetto che spogliato dalla sua valenza mistica esprime l’attualissimo dibattito sulla valenza degli investimenti nell’economia reale dei fondi pensione.
Studiando questo argomento mi sono imbattuto in un oggi quasi sconosciuto monaco cistercense Cesario di Heisterbach che nei primi anni del XIII secolo compone un libretto di exempla che racconta tra le altre la storia di un usuraio di Liegi che finito in Purgatorio viene riscattato alla salvezza dalle preghiere della moglie. Un esito inaspettato considerando l’asprezza della condanna dell’usura, cioè di quello che era allora semplicemente il prestito di denaro con interessi, da parte della Chiesa.
Acutamente lo storico francese (degli Annales) Jacques LeGoff scrive nel suo libro dedicato alla nascita del purgatorio “Ho anche avanzato l'ipotesi provocatoria che il purgatorio, permettendo la salvezza dell'usuraio, abbia contribuito alla nascita del capitalismo”.
E non è un caso che questo passaggio, che è espressione storica del percorso di legittimazione del denaro, avvenga nel crocevia della nascente città. Scrive ancora LeGoff con forza evocativa “Nel cuore della Parigi di Luigi VII e del giovane Filippo Augusto, gomito a gomito con i cambiavalute sui ponti, gli appaltatori della navigazione sulla Senna, gli artigiani e gli operai-merce umana già stritolata sul mercato della manodopera in place de Grève, le grandi verità del cristianesimo sono ripensate e rimodellate con creatività e fervore”.
L’uomo, il senso
Si crea quindi in quel momento quel difficile equilibrio tra finanza e etica che è oggi al centro della nostra riflessione. Quello che mi sembra interessante rimarcare è che questo equilibrio è destinato a saltare ogni qualvolta si oscura la stella polare dell’individuo.
Luzzati il padre nobile del movimento delle banche popolari aveva scritto come lo sviluppo di questi istituti, fondandosi sull’etica individuale, si traduca di fatto in un miglioramento complessivo della società. Dalla natura mutualistica della banca popolare “deriva la fratellanza giurata a seguire insieme uno scopo che altrimenti sarebbe stato impossibile, la tenace volontà di soddisfare puntualmente gli obblighi assunti, lo affaccendarsi al miglioramento della società, perché se la banca fallisce si perdono dapprima i propri risparmi”.
Voglio essere sfacciatamente provocatorio e chiudo quindi con una affermazione che forse vi suona decontestualizzata in una riunione come questa dedicata ai rischi e alla finanza. Eppure essa da il senso all’azione degli attori sociali quali volente o nolente sono gli investitori istituzionali che sono oggetto della mia attenzione e del mio lavoro. Il benessere dell’uomo come fine ultimo dell’azione sociale. Perché senza comportamenti virtuosi il destino per molti è tracciato. E non ci assolve essere indifferenti. E poi mi riferisco di fatto all’obiettivo uno, la lotta alla povertà, dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite che tutti professano di perseguire nelle loro brochure.
Ho già scritto della potenza che ha avuto su di me la lettura della Leggenda dei tre compagni (Legenda trium sociorum) di Angelo, Leone e Rufino, gli amici di una vita di Francesco. Di lui ricordano l’incontro rivelatore con il lebbroso “Lui voltava però sempre la faccia dall'altra parte e si turava le narici. Ma per grazia di Dio diventò compagno e amico dei lebbrosi così che, come afferma nel suo Testamento, stava in mezzo a loro e li serviva umilmente”.
E’ il guardare, ma il guardare per riconoscere, che cambia la vicenda umana di Francesco. I lebbrosi ci sono sempre stati nel mondo “locale” in cui viveva ma erano estranei alla vita di Francesco. Estranei in quanto non visti. Anzi la chiusura a loro di Francesco era stata fino a quel momento totale e coinvolgeva tutti i suoi sensi, non solo non vedeva, ma non voleva nemmeno sentirne l’odore.
In realtà questo non vedere è, a differenza di quello che si crede, un atto volontario, perché in realtà il povero c’é ed è necessario compiere un atto volontario, forte, di rifiuto, per non vederlo.